Le promesse di Internet e i miti infranti del web – I parte
Il futuro non è più quello di una volta. La frase di Paul Valery[1] sembra scritta apposta per cogliere la sensazione di disagio che emerge con crescente evidenza da Internet. Le promesse qualitative (di quantità ce n’è fin troppa) di una rete universale basata su standardizzazione tecnologica (open standard) e neutralità[2] sembrano sempre più spesso infrangersi contro la tendenza a limitare il libero accesso ai contenuti, le tentazioni di esercitare forme di controllo centrale, la scarsa affidabilità di alcune fonti, l’invadenza della pubblicità, esplicita e occulta, e una serie di altri fenomeni poco piacevoli, soprattutto dal punto di vista dell’utente.
Quali erano (e sono) queste promesse? Per ritrovarle basta leggere poche righe di Tim Berners-Lee, uno dei padri di Internet: “Vogliamo un Web che rifletta una visione del mondo in cui ogni cosa viene fatta democraticamente, in cui l’elettorato sia informato e i funzionari siano responsabili (delle attività loro affidate). Per ottenere questo usiamo i computer per farci parlare l’un l’altro in modo da promuovere questo ideale”.[3]
Risultato della sintesi tra concetti di teoria dell’informazione (l’idea di ‘rete distribuita’ sviluppata all’inizio degli anni ’60 da Paul Baran a fini militari e l’ipertesto di Ted Nelson), elementi di tecnologia informatica (il Transmission Control Protocol e il domain name system)[4] e istanze libertarie di cui lo stesso Berners Lee è tutt’ora un convinto assertore, la rete divenne ben presto il principale strumento di accesso alle informazioni e di libera espressione del pensiero individuale e del dibattito politico.[5]
Anche dal punto di vista logico formale il web mal sopporta qualsiasi forzatura gerarchica o centralista: la già citata ‘rete distribuita’ di Paul Baran prevedeva che non ci fosse un nodo più importante di altri ma che ciascuno di essi occupasse lo stesso livello in una gerarchia del tutto piatta. [6] Su questo modello fu sviluppata la rete Arpanet, vero antenato di Internet.[7]
Originato dall’esigenza di assicurare la sopravvivenza del sistema difensivo americano nel caso di un eventuale attacco militare sovietico[8] ed entrato in servizio nel 1969 il sistema di comunicazione globale privo di controllo centrale dovette piacere molto ai giovani ricercatori formatisi nel clima della contestazione studentesca. Nel corso degli anni ‘80 l’accesso alla rete militare Arpanet fu affidato alla National Science Foundation e progressivamente esteso alla consultazione di civili a cominciare dalle istituzioni scolastiche ed universitarie. [9]
Di lì alla nascita dei primi provider commerciali il passo fu breve e così, come per magia, un’idea ‘militare’ trovò applicazione nel progetto più rivoluzionario della fine del ventesimo secolo.
Ma oggi il clima è cambiato. Notizie di segno assai meno libertario compaiono sempre più spesso sulla rete, mettendo in discussione le speranze, forse un po’ ingenue, a cui ci eravamo abituati a credere.
Il primo allarme lo ha dato il solito Berners-Lee che, nel novembre 2010, ha lamentato il rischio sempre più concreto che alcuni dei presupposti su cui la rete si fonda vengano seriamente compromessi da interessi economici e politici. [10] Nonostante l’abbondanza di dati inconfutabili e la passione civile del suo contributo le cose non sono però migliorate. Anzi.
L’elenco dei diritti che Internet ci ha promesso e che, nel giro di un ventennio, sono stati messi in discussione è assai lungo ed è assai probabile che i tentativi di limitarli, dettati da condizioni economiche, opinioni politiche, intenti morali, siano destinati a crescere nel tempo. Il senso di precarietà che deriva da queste costanti e ripetute minacce alla libertà degli internauti dipende in parte dal fatto che, per molti aspetti, Internet vive ancora la condizione di un far west dove le regole del mondo reale valgono fino a un certo punto ed esistono mille sistemi per aggirarle. E questo è in fondo qualcosa a cui molti accessi difensori della libertà digitale non intendono rinunciare.
Così i diritti promessi da Internet assumono sempre più spesso la fisionomia di miti infranti. Il seguito di questo lavoro è una passeggiata, senza pretese di completezza e di inattaccabile rigore, tra questi miti e le rovine che il loro crollo sparge nel cyberspazio.
—Continua—
[1] La frase è attribuita anche ad Artuhr C. Clarke e ai poeti contemporanei Mark Strand (USA) e Ivan Tresoldi (Italia)http://it.wikipedia.org/wiki/Ivan_Tresoldi
[2] Si veda in proposito Berners-Lee T, Long Live the web: a call for continued Open Standard and Neutrality, http://www.scientificamerican.com/article.cfm?id=long-live-the-web
[3] Si veda Isn’t it semantic?, intervista rilasciata da Berners-Lee a Brian Runciman nel 2006. Il testo appare anche nel volume collettaneo Leaders in Computing: Changing the Digital World pubblicato dalla British Conputer Society nel 2011: http://www.bcs.org/content/conWebDoc/3337
[5] Ancora Berners-Lee, in occasione del discorso tenuto il 18 aprile 2012 alla 21st International World Wide Web Conference di Lione: «If our freedoms on the Web are threatened or abused by repressive government policies (SOPA, PIPA, Hadopi) pushed forward by business and industry lobbies, one should not forget that the Web is only one existing communication media in the democratic public space, not unique. The web is a technology, not a right or a freedom, even if it becomes the dominant medium of exchange of ideas between individuals of infinite tools: blogs, emails, chat, social networks… In the Arab-Muslim countries, the Web has played the role of a facilitator by its tools, allowing a rapid and massive mobilization of protesters in Cairo, Tunis and Tripoli, but never made the revolution. A revolution is not made with machines, but by the men who are behind».
[6] l’Internet di oggi non è più la rete di Baran, infatti la stragrande maggioranza dei punti − gli utenti come noi − è ‘terminale’ ed è connessa a stella ad un numero limitato e controllato di server.
[7] http://en.wikipedia.org/wiki/ARPANET. La Internet Society smentisce l’ipotesi secondo cui Arpanet era destinato a sopravvivere a un attacco nucleare. In effetti l’idea di una ‘rete indistruttibile’ è frutto del già ricordato lavoro di Baran presso la società Rand mentre Arpanet era semplicemente destinato a connettere tra loro i computer di istituzioni e imprese che collaboravano con la Difesa americana. Tuttavia rimase sotto il controllo militare fino al 1981. Fin dall’inizio degli anni ’80 i militari si dotarono della rete Milnet che nel 1983 si separò definitivamente da Arpanet (https://www.internetsociety.org/ – voce non referenziata)
[8] http://www.wired.com/wiredenterprise/2012/09/what-do-the-h-bomb-and-the-internet-have-in-common-paul-baran/
[10] Berners Lee T, Long Live the web: a call for continued Open Standard and Neutrality, http://www.scientificamerican.com/article.cfm?id=long-live-the-web
[8] http://www.wired.com/wiredenterprise/2012/09/what-do-the-h-bomb-and-the-internet-have-in-common-paul-baran/
[10] Berners Lee T, Long Live the web: a call for continued Open Standard and Neutrality, http://www.scientificamerican.com/article.cfm?id=long-live-the-web
The trouble with our times is that the future is not what it used to be. Paul Valery’s sentence[1] seems to have been intended to capture the sense of unease frequently associated with the Internet. The qualitative promises (regarding quantity there is already too much) of a universal web based upon standardisation (open standard) and neutrality,[2] appear to increasingly come to nothing as a result of the restrictions on free access to content, the temptation to establish central control, the poor reliability of some sources, the intrusiveness of explicit and hidden advertising and a number of other unpleasant phenomena, especially from the user’s point of view.
What were (and are) these promises? They can be found in a few lines written by Tim Berners-Lee, one of the fathers of the Internet: “…we want the Web to reflect a vision of the world where everything is done democratically, where we have an informed electorate and accountable officials. To do that we get computers to talk with each other in such a way as to promote that ideal”. [3]
The result of the synthesis of information theory (the idea of a ‘distributed network’ developed for military purposes by Paul Baran at the beginning of the ‘60s and Ted Nelson’s hypertext), information technology (the Transmission Control Protocol and the domain name system)[4] and the instances of libertarianism of which Berners-Lee is still a firm believer, the web soon became the main channel of access to information and of free expression of individual thought and political debate.[5]
Even from a logic-formal point of view it is difficult to exert hierarchical or centralised pressure on the web: the aforementioned Paul Baran’s ‘distributed network’ stated that no node was more important than others, but that each of them occupied the same level in an entirely flat hierarchy.[6] Arpanet, the true predecessor of the Internet, was developed around this model.[7]
The global communication system, which was designed to guarantee the survival of the American defence system in the event of a soviet military attack[8] and became operative in 1969, had no central control and must have been greatly appreciated by the young researchers training in the climate of student protest. During the 80s access to the military Arpanet network was given to the National Science Foundation and gradually extended for the consultation of school and university institutions.[9]
The birth of the first commercial providers followed soon after and a military ‘idea’ was subsequently applied to the most revolutionary project of the end of the twentieth century.
Yet the winds have changed. News of a far less libertarian nature appears with increasing frequency on the web, questioning the hopes in which we had perhaps somewhat ‘naively become accustomed to believe.
One of the earliest warnings came once again from Berners-Lee who, in November 2010, complained about the increasing risk that some of the premises on which the Internet is founded would be compromised due to economic and political interests.[10] Despite the abundance of evidence and the strong sense of civic contribution embodied by his ideas, things have not improved.
On the contrary. The list of the rights promised by the Internet, and that in the course of twenty years have been challenged, is a lengthy one and it is likely that the attempts to limit them, dictated by economic conditions, political opinions and moral intents, are doomed to multiply in the future. The sense of insecurity deriving from these constant and repeated threats to the freedom of internauts depends on the fact that, from many points of view, Internet is still in a kind of Far West where the rules of the real world only apply up to a certain point and there are thousands of systems to work around them. And this is something that many passionate defenders of digital liberty are not willing to give up.
So the rights promised by the Internet are increasingly taking on the physiognomy of shattered myths. The follow-up to this paper, takes, without any claim to completeness or unassailable rigour, a stroll through these myths and the ruins that their collapse creates throughout cyberspace.
– To be continued –
[1] The sentence is attributed to Arthur C. Clarke and to contemporary poets Mark Strand (USA) and Ivan Tresoldi (Italy)http://it.wikipedia.org/wiki/Ivan_Tresoldi
[2] See Berners-Lee T, Long Live the web: a call for continued Open Standard and Neutrality, http://www.scientificamerican.com/article.cfm?id=long-live-the-web
[3] See Isn’t it semantic?, Brian Runciman’s interview with Berners-Lee (2006). The text also appears in the collective volume Leaders in Computing: Changing the Digital World published by the British Computer Society in 2011: http://www.bcs.org/content/conWebDoc/3337
[5] Again Berners-Lee, during the speech held on April 18, 2012 at the 21st International World Wide Web Conference in Lyon: «If our freedoms on the Web are threatened or abused by repressive government policies (SOPA, PIPA, Hadopi) pushed forward by business and industry lobbies, one should not forget that the Web is only one existing communication media in the democratic public space, not unique. The web is a technology, not a right or a freedom, even if it becomes the dominant medium of exchange of ideas between individuals of infinite tools: blogs, emails, chat, social networks… In the Arab-Muslim countries, the Web has played the role of a facilitator by its tools, allowing a rapid and massive mobilisation of protesters in Cairo, Tunis and Tripoli, but never made the revolution. A revolution is not made with machines, but by the men who are behind».
[6] Today’s Internet is no longer Baran’s network, as most of the nodes – including users like us – are ‘terminals’, connected to the network and linked to a limited and controlled number of servers (star-like connection).
[8] http://www.wired.com/wiredenterprise/2012/09/what-do-the-h-bomb-and-the-internet-have-in-common-paul-baran/
[10] Berners-Lee T, Long Live the web: a call for continued Open Standard and Neutrality, http://www.scientificamerican.com/article.cfm?id=long-live-the-web
con questa prima puntata ci lasci intendere che seguirà un lavoro non trascurabile sull’argomento.
Mi piacerebbe che tu tenessi in considerazione anche l’apparente libertà nella quale l’utente di oggi opera, p.es. sul n° 1 dei social network, senza rendersi conto che sta offrendo una mole di informazioni enorme a FB, che in tempi brevi saprà sfruttare con profitto.
Concordo con la tua osservazione e ti anticipo che, in una delle prossime puntate, l’argomento sarà affrontato in modo puntuale.
Vorrei tanto che ci fosse ampia consapevolezza riguardo al fatto che i social media fanno business con le informazioni che gli forniamo…
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